Se ne va -sportivamente parlando- un eroe. Un simbolo. Un’anima gentile.
Una persona gracile, fisicamente disgraziata, che è stata capace di scrivere la pagina sportiva più memorabile della storia italiana.
Perché il Mundial 1982 è -per distacco- l’impresa più grande di tutti i tempi, e la firma fu tutta sua, senza nulla togliere a Bearzot e compagni. Pablito. Rossi. Paolo Rossi.
Noi tutti lo abbiamo conosciuto più come commentatore televisivo in questi anni, e anche lì ci colpivano la sua pacatezza, la gentilezza, mai una parola o un commento fuori posto. Lui, che avrebbe voluto fare all’infinito quel giro di campo al Bernabeu con la Coppa del Mondo tra le mani. Lui, che visse il dramma della squalifica e trovò la forza di ritornare. Lui, che ha unito un paese, perché gli sportivi a volte fanno anche quello, segnando un’intera generazione e i sogni di bambino.
Sono figlio di un uomo che, in ventotto anni di calcio praticato, sarà venuto a vedermi giocare cinque volte al massimo. Non glie n’è mai fregato molto del calcio. Eppure, quando papà raccontava quelle sere di luglio, le tapparelle alzate, le stradine deserte, le case sintonizzate tutte sulla Rai, i caroselli partita dopo partita, io che ai tempi avevo solo tre anni avevo l’impressione di averle viste davvero quelle partite, di aver fatto parte attiva di quei festeggiamenti, di ricordare da sempre quelle esultanze, tanto era il pathos di papà: un uomo che non glie ne fregava nulla di calcio.
Pablito è stato capace di raccogliere la passione di un Paese e di trasformarla in un amore vero, viscerale e per questo immortale. Lui, così esile. Così pallido. Così lontano dai fisicati di ieri e di oggi. Per questo Paolo Rossi è davvero un eroe.
Ci ha fatto scoprire -in quelle sere spagnole- che tutti potevamo essere Paolo Rossi. E che, in fondo, c’è un Paolo Rossi in ognuno di noi. Il lato bello della vita e dello sport. Poi, certo, aveva un tempismo e un senso della posizione in area di rigore impressionanti: un po’ Pippo Inzaghi, un po’ Gianluca Vialli. Tanto per citare alcuni attaccanti che lo presero a modello. E poi Baggio, Signori, Totti, Del Piero, Immobile. La scuola italiana degli pseudo centravanti alti meno di 1,80 m.
Con lo stesso spirito ha affrontato la malattia, diagnosticata in primavera. Senza proclami, basso profilo, circondato dagli affetti più cari. Anche negli ultimi giorni c’è molto eroismo. Adesso i funerali, nell’amata Vicenza. Forse non gli intitoleranno uno stadio. Forse si parlerà di lui solo per quel Mondiale, e mai del resto. Forse il suo sorriso gentile non farà mai troppo rumore.
Noi terremo tra le mani la sua umiltà. Ricorderemo quei salti dopo un gol che disegnavano un modo di vivere e intendere il calcio. Conserveremo la serietà dei giudizi e la leggerezza delle parole. In sottofondo le telecronache di Nando Martellini e negli occhi la pipa di Sandro Pertini.
Chiudo con le parole -bellissime- che ha usato per salutarlo Giovanni Trapattoni: “I giocatori non dovrebbero andarsene prima degli allenatori”.
Non dobbiamo mai vergognarci dell’amore per questo sport.
Paolo Rossi, detto Pablito, l’ha vissuto davvero.